Da Petrarca al fantascientifico iPhone 50: il ricordo affettivo e quello artificiale
Se volete veder confermati i vostri peggiori sospetti sui vantaggi di studiare nelle prestigiose università dell’Ivy League, vi invito ad andare a vedere su YouTube un video di una ventina di anni fa dal titolo Harvard Graduates Explain Seasons (gli studenti di Harvard spiegano perché ci sono le stagioni). Ci fa vedere un gruppo di neolaureati della più prestigiosa istituzione universitaria americana, in toga e cappellino nero, che spiegano a un interlocutore fuori campo perché abbiamo l’inverno, la primavera, l’estate e l’autunno.
«La terra gira intorno al sole», afferma un neolaureato in discipline umanistiche, «e quando ci avviciniamo al sole fa più caldo, mentre quando ci allontaniamo fa più freddo». La telecamera si sofferma per un attimo su di lui, in modo da sottolineare la sua ingiustificata soddisfazione, poi prosegue presentandoci una deprimente serie di suoi compagni che danno spiegazioni altrettanto scorrette sulla causa delle stagioni.
Come spiegare il fatto che questi beneficiari della migliore istruzione che la nostra società possa offrire non conoscano un fatto così fondamentale? Naturalmente non tutti i laureati di Harvard sono così ignoranti, questo video non è un campione rappresentativo. Le risposte più stupide sono state scelte di proposito, con un’impostazione senz’altro ingenerosa. Sondaggi condotti su una base più ampia mostrano però che un numero impressionante di studenti americani non è in grado di riferire nemmeno le nozioni più basilari che avrebbe dovuto apprendere lungo il percorso scolastico. Secondo un recente sondaggio, circa due terzi dei diciassettenni americani non sanno datare la guerra civile americana, neanche con un’approssimazione di mezzo secolo. Uno su cinque non sa contro chi abbiano combattuto gli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale. E quasi la metà pensa che La Lettera scarlatta, il romanzo americano classico di Nathaniel Hawthorn, sia un processo alle streghe o uno scambio epistolare.
Dobbiamo credere che, nei 17 anni che hanno trascorso nelle scuole, ai laureati di Harvard intervistati in quel video non siano mai state insegnate le cause delle stagioni? O che a due terzi degli studenti americani delle scuole superiori non sia mai stato detto quando c’è stata la guerra civile? È impossibile crederlo. A un certo punto, probabilmente nella scuola secondaria, un insegnante deve avergli spiegato che la terra ruota attorno a un asse inclinato rispetto al piano della sua orbita, e che la Guerra Civile ha avuto luogo attorno al 1860. Scommetto che non si tratta di una mancanza del sistema scolastico, ma di un difetto di memoria. Vale a dire che a un certo punto quelle nozioni devono essere state impartite, lette, apprese - e poi dimenticate.
Ho voluto richiamare la vostra attenzione su quel video - a dire il vero alquanto datato - e su quelle statistiche, non per ironizzare sugli studenti di Harvard più ignoranti, né per lamentare la mancanza di senso storico degli americani, ma perché penso che rimandino a questioni di portata assai più ampia sulla conoscenza e sul rapporto davvero strano che la nostra cultura ha con essa.
Perché parlo di un rapporto strano?
Vorrei chiedervi di fare un breve esperimento di introspezione. Ripensate ai corsi che avete seguito nel primo anno di università, probabilmente pagato a caro prezzo da voi o dai vostri genitori (o dal governo). Quante delle nozioni che vi sono state impartite allora ricordate oggi? Volete indietro i vostri soldi? Oppure riflettete per qualche momento su un libro che avete letto nell’ultimo anno. Quali parti vi sono rimaste in mente? Quanto ne ricorderete tra un anno, o tra dieci?
Se il motivo per cui leggiamo fosse incamerare conoscenza, la lettura sarebbe l’attività meno efficiente che svolgiamo. Io, per esempio, riesco a passare sei ore su un libro e, dopo averlo messo giù, ho solo una pallida idea di quel che ho letto. Tutti quei fatti e aneddoti, anche i punti interessanti che ho sottolineato, di solito mi rimangono in mente per un periodo piuttosto breve, poi spariscono chissà dove. Non penso di essere un lettore particolarmente distratto. Ho il sospetto che molti, forse quasi tutti i lettori, siano come me. Più continuiamo a leggere, più dimentichiamo.
Analogamente, passiamo la parte migliore dei nostri anni formativi in scuole che ci riempiono la testa di nozioni - date, nomi, fatti, termini, idee, equazioni, concetti - di cui però ricordiamo solo una minima parte in età adulta. Quel che è davvero strano è che tutti ne siamo consapevoli, ma non lo troviamo né bizzarro, né tanto meno scandaloso.
Siamo tutti colpiti da amnesia. Ma dimenticare non è la malattia, è il sintomo - di un impegno sommario, di un apprendimento superficiale, del tentativo di consumare troppo e troppo in fretta, senza darci il tempo e lo spazio per assorbire veramente.
Ho passato un anno a cercare di allenare la memoria, studiandone il funzionamento e cercando di capire se c’era un trucco o un esercizio per ricordare meglio. Ho imparato che l’antica arte della memoria, che risale a circa 2500 anni fa, richiede un impegno profondo - quello che gli psicologi contemporanei definiscono «codifica elaborativa». Si tratta di collocare le informazioni in un contesto, comprendere il loro significato, associarle alla rete di altri concetti che abbiamo in mente. Ricordare richiede tempo, impegno e concentrazione.
Tempo, fatica, concentrazione: tutte cose che troppo spesso ci mancano. Siamo bombardati da informazioni e siamo diventati dei colabrodo che catturano solo minime particelle di quel che gli piove addosso, mentre il resto scorre via. Ogni giorno sembra che ci siano più blog da seguire, più riviste da leggere, libri da conoscere, informazioni che ci distraggono. Mentre il flusso di queste informazioni continua a crescere, diventa sempre più difficile essere adeguatamente informati.
Leggiamo ovviamente per molte altre ragioni oltre a quella di riempire di informazioni i nostri magazzini mentali. Leggiamo per il piacere di una storia ben raccontata e di una frase ben formulata, e forse per la confusa speranza che quest’esperienza ci permetta di guardare il mondo attraverso una lente un po’ diversa.
Anche la scuola ha diversi scopi, dal favorire la socializzazione allo stimolare le facoltà intellettive e coltivare le virtù. Ma sicuramente una delle funzioni più importanti è infondere nelle generazioni future le conoscenze che abbiamo collettivamente acquisito. In questo la scuola si è dimostrata un disastro. Lo sappiamo tutti, non ce lo dicono solo le statistiche, ma anche le nostre esperienze. Eppure continuiamo a mandare i nostri figli alle stesse scuole, continuiamo a consumare voracemente libri, giornali, riviste e siti web, e continuiamo a dimenticare quasi tutto quel che impariamo. Se, come ha detto nel Dodicesimo secolo Ugo di San Vittore, «L’utilità dell’istruzione risiede unicamente in quel che ricordiamo», allora i metodi che abbiamo per acquisire conoscenza sono profondamente, radicalmente sbagliati?
L’incapacità cronica e diffusa di ricordare è una caratteristica della nostra cultura, ed è così radicata che la consideriamo un dato di fatto. Ma non è sempre stato così. Una volta, molto tempo fa, la sola cosa che si poteva fare dei pensieri era ricordarli. Non c'era un alfabeto in cui trascriverli, carta su cui fissarli. Tutto quel che volevamo conservare doveva essere memorizzato. Ogni storia che si voleva raccontare, ogni idea che si desiderava tramandare, informazione che si intendeva trasmettere, doveva anzitutto essere ricordata.
Oggi abbiamo le fotografie per registrare le immagini, i libri per immagazzinare la conoscenza, e recentemente, grazie a Internet, per accedere alla memoria collettiva dell’umanità ci basta tenere a mente gli opportuni termini di ricerca. Abbiamo rimpiazzato la memoria naturale con un'ampia sovrastruttura di puntelli tecnologici che ci hanno liberato dall’onere di immagazzinare le informazioni nel cervello. Queste tecnologie che esternalizzano la memoria e raccolgono la conoscenza al di fuori di noi hanno reso possibile il mondo moderno, ma hanno anche cambiato il modo in cui pensiamo e in cui usiamo il cervello. Abbiamo dato meno importanza alla nostra memoria interna. Non avendo quasi più bisogno di ricordare, a volte sembra che ci siamo dimenticati come si faccia. Vorrei soffermarmi un momento su come questa situazione si sia venuta a creare. Come siamo arrivati a salvare le nostre memorie ma a perdere la nostra memoria?
Vivendo in mezzo a un fiume di parole stampate (solo ieri, ad esempio, sono usciti quasi 3.000 nuovi libri), è difficile immaginare cosa fosse la lettura prima di Gutenberg, quando un libro era un oggetto scritto a mano, raro e costoso, che richiedeva a un amanuense mesi di lavoro. Oggi scriviamo per non dover ricordare, ma nel tardo Medioevo i libri non erano considerati solo sostituti, ma anche aiuti della memoria. Ancora nel Quindicesimo secolo potevano esserci solo poche decine di copie di un dato testo, e molto probabilmente erano incatenate a una scrivania o a un leggio in qualche biblioteca, che se conteneva un centinaio di altri libri sarebbe stata considerata assai ben fornita.
Gli studiosi sapevano che dopo aver letto un libro molto probabilmente non lo avrebbero mai più visto, avevano quindi un forte incentivo a ricordare quel che leggevano con grande impegno. Sui testi si ruminava, masticandoli, rigurgitandoli e rimasticandoli, e si arrivava così a conoscerli intimamente e a farli propri. Come scrisse Petrarca in una lettera a un amico: «Gustai la mattina il cibo che digerii nella sera: mangiai fanciullo per rugumare da vecchio; e tanto con loro mi addomesticai, talmente mi passarono, non dico nella memoria, ma nel sangue e nelle midolle».
Quando si sa di dover ricordare un testo, lo si legge in modo molto diverso da quel che la maggior parte di noi fa oggi. Ora privilegiamo la lettura veloce di una gran quantità di materiale scritto, e questo ci induce a leggere superficialmente e a cavarne ben poco. Non è possibile leggere una pagina al minuto, la velocità con cui la maggior parte di noi legge oggi, e aspettarsi di ricordare abbastanza a lungo quel che si è letto. Se si vuole tenere a mente qualcosa, bisogna soffermarcisi, ripetere, appropriarsene.
Lo storico Robert Darnton ha descritto il passaggio dalla lettura «intensa» alla lettura «estesa» avvenuto con la diffusione dei libri a stampa. Fino a non molto tempo fa, la gente leggeva «intensamente», dice Darnton. «Aveva pochi libri - la Bibbia, un almanacco, un paio di testi devozionali - e li leggeva più e più volte, di solito ad alta voce e in gruppo, per cui quella ristretta quota di letteratura tradizionale gli si imprimeva profondamente nella coscienza».
Con l’avvento della stampa, attorno al 1440, le cose hanno cominciato gradualmente a cambiare. Nel primo secolo dopo Gutenberg, il numero di libri esistenti è aumentato di quattordici volte ed è diventato possibile, anche a chi non possedeva una grande ricchezza, avere una piccola biblioteca a disposizione e avere a portata di mano una raccolta di memorie esterne facilmente consultabili.
L’enorme diffusione della conoscenza che ne è seguita ha spinto i confini del sapere umano in nuove direzioni, ampliando notevolmente il bagaglio di nozioni che si doveva avere per essere una persona colta.
Oggi leggiamo libri «estesamente», senza una profonda concentrazione e, a parte rare eccezioni, li leggiamo una volta sola. Nella lettura anteponiamo la quantità alla qualità. Non abbiamo scelta, se vogliamo mantenerci aggiornati. Anche nei settori più specializzati, è una fatica di Sisifo cercare di dominare la montagna di parole che si riversa ogni giorno sul mondo. E questo significa che è praticamente impossibile fare uno sforzo serio per memorizzare quel che leggiamo. Non possiamo permetterci il lusso di imprimere nella nostra anima le idee come faceva Petrarca. Quando volgo lo sguardo ai miei scaffali, ai libri su cui ho trascorso con fatica tante ore, mi viene sempre un senso di scoraggiamento. Sui quegli scaffali ci sono libri che non riesco nemmeno a ricordare se ho letto o no.
Anche nell’apprendimento scolastico si preferisce l’estensione alla profondità, con conseguenze devastanti per la memorizzazione a lungo termine. Uno dei fatti più ampiamente dimostrati sul funzionamento della memoria, sia nell’ambiente controllato del laboratorio che in studi sul campo condotti nelle classi, è il valore del cosiddetto «apprendimento a intervalli». Gli scienziati cognitivi hanno scoperto che il modo migliore per attivare la memoria a lungo termine è impartire le nozioni da apprendere in diverse sessioni a distanza di tempo l’una dall’altra e di inframmezzarle con altre lezioni. Se vogliamo fissare un argomento nella memoria, dobbiamo studiarlo e poi allontanarcene; quindi riprenderlo in un secondo momento e abbandonarlo di nuovo, per esserne coinvolti a fondo nel tempo. In questo modo si ottengono risultati sorprendenti. Uno studio recente ha dimostrato che un certo numero di lezioni impartite ogni due mesi dà lo stesso risultato, ai fini della memorizzazione, di un numero doppio di lezioni offerte ogni due settimane.
Il nostro sistema d'insegnamento è però impostato in maniera del tutto antitetica a questo noto principio della scienza cognitiva. Invece di riprendere gli argomenti a intervalli regolari per rafforzarne l’apprendimento, lo studio è organizzato in blocchi. Anche se sappiamo che il trasferimento della conoscenza richiede un rapporto continuo con il materiale che si desidera padroneggiare, tendiamo fare grandi studiate una tantum. Di solito una materia viene presentata in un tempo relativamente breve, nell'arco dei tre mesi del semestre accademico. Gli studenti sono obbligati a studiare in fretta e furia per l'esame finale che dovrebbe verificare la memorizzazione delle informazioni ricevute e poi, dal giorno dopo, sono autorizzati a dimenticare tutto quello che avevano imparato.
Raramente c'è una verifica successiva per vedere se ricordano ancora quello che era stato loro insegnato. Tutto ciò che sappiamo sul funzionamento della memoria ci dice che questo è un pessimo modo di impostare l'apprendimento. La mentalità dell'abbuffata seguita dalla purga porta a un apprendimento superficiale e a dimenticare rapidamente, e il risultato sono i laureati di Harvard che non sanno spiegare qual è la causa delle stagioni.
Si potrebbe sostenere che stiamo entrando in una nuova era nella quale avere una cultura profonda - possedere una mente ben coltivata e culturalmente attrezzata - non ha più l'importanza di una volta. Uno studio pubblicato all'inizio di quest'anno sulla rivista Science ha dato molta soddisfazione agli esponenti di quell'intellighenzia che, dall'altra parte dell'Atlantico, denuncia regolarmente gli effetti negativi che Internet ha sul nostro modo di pensare. Un serie di esperimenti condotti dai ricercatori della Columbia University ha dimostrato che quando impariamo delle nozioni che sappiamo essere anche immagazzinate nella memoria di un computer, il nostro rapporto con esse cambia. Quando sappiamo che qualcuno ricorda per noi, investiamo meno nell'atto del memorizzare.
Per chi passa il tempo a navigare sul web saltando da un argomento all'altro, facendo delle pause per controllare la posta e i risultati sportivi, questo è diventato il modo principale di acquisire informazioni. Leggiucchiamo, scorriamo pagine web, guardiamo qua e là distrattamente, senza grande impegno. E dimentichiamo.
«Google ci sta rendendo stupidi?» ha chiesto un giornalista televisivo. «Ci sta rovinando i ricordi?» ha domandato un altro. E se così fosse, sarebbe poi tanto grave?
Queste discussioni sono molto più vecchie di Google. Abbiamo usato un mezzo tecnologico per registrare all'esterno i nostri ricordi fin da quando il primo uomo ha spalmato del colore sulla parete di una caverna. Ed è da allora, più o meno, che ci si è preoccupati degli effetti di questa esternalizzazione. Due millenni e mezzo fa, secondo il Fedro, Socrate era preoccupato degli effetti di una nuova tecnica, chiamata scrittura, sulla mente umana. Temeva che i pensieri, una volta che si fosse cominciato a portarli fuori dalla mente trasferendoli su papiro, sarebbero diventati dei vasi vuoti.
La gente avrebbe immaginato che vi fosse un'analogia tra la conoscenza superficiale immagazzinata esternamente e quella incamerata internamente, e avrebbe creduto di essere intelligente. Ma un testo scritto non può interrogarci. Non può controbattere a se stesso. Rispetto a una chiacchierata con Socrate, la lettura era un atto relativamente passivo. La cultura, secondo lui, si stava insidiosamente dirigendo verso la superficialità e l'incapacità di memorizzare. Fortunatamente qualcuno ha avuto il buon senso di mettere per iscritto il disprezzo che Socrate nutriva per la parola scritta, altrimenti oggi non ne sapremmo nulla. (Grazie mille, Platone!).
Abbiamo fatto molta strada, dal temere la scrittura al preoccuparci di Google. Oggi credo che saremmo tutti d'accordo sul fatto che Socrate stava esagerando. Avendo convissuto con la scrittura per alcuni millenni, siamo più inclini a vederne i vantaggi che le insidie. Penso però che nei timori di Socrate si possa riconoscere un problema attuale.
Ai giorni nostri, quando ci troviamo di fronte a nozioni che non conosciamo o a una domanda per la quale cerchiamo una risposta, tiriamo fuori lo smart phone e avviamo una ricerca. Abbiamo tutta la conoscenza collettiva della civiltà umana - o, almeno gran parte di essa - a portata di pollice. O anche più vicino.
«Buon giorno Siri, perché ci sono le stagioni?»
Anche se non conosciamo la stragrande maggioranza delle informazioni contenute in Google, o le risposte che ci può dare Siri, il fatto di potervi accedere ci dà uno straordinario senso di potere. E sta cambiando il nostro atteggiamento nei confronti della conoscenza.
Usiamo sempre più spesso qualche dispositivo come fosse un obiettivo attraverso il quale confrontarci con il mondo e mediare il rapporto con la realtà. La prossima tappa di questa escalation tecnologica sarà la realtà aumentata, una tecnologia che sta cominciando ad essere adottata da un numero crescente di applicazioni mobili, e che molti credono sia destinata a trasformare i computer da cose che abbiamo a cose che indossiamo. L'iPhone 5.0 sarà un dispositivo con cui interagire con la voce e le dita, ma l'iPhone 20.0 sarà come un paio di occhiali e l'iPhone 50.0 potrebbe benissimo essere in grado di canalizzare le informazioni direttamente nella nostra corteccia cerebrale.
Invece di dover comunicare indirettamente con le nostre memorie esterne, esse faranno sempre più parte integrante del modo in cui percepiamo il mondo e ne facciamo esperienza, ampliando automaticamente i nostri pensieri e le nostre percezioni con una vasta gamma di informazioni e una sempre maggiore potenza di elaborazione.
Questo futuro bionico potrebbe sembrare fantascienza, ma in realtà è la visione dei fondatori di Google. Larry Page ha detto che attende con impazienza il giorno in cui il suo prodotto sarà inserito direttamente nel cervello umano. «Quando penseremo a qualcosa di cui non sappiamo molto, otterremo automaticamente le informazioni desiderate», dice. «Alla fine ci faremo impiantare un congegno che, appena penseremo a una argomento, ci darà una risposta». Il suo partner, Sergi Brin, aggiunge, «In ultima analisi vedo Google come un modo per dotare il cervello di tutta la conoscenza del mondo». Pensate che Siri sia carina? Che ne dite se venisse a stare dentro di noi?
In un mondo in cui siamo sempre più spesso collegati a Internet, in cui ogni fatto conosciuto - o che è stato conosciuto - è immediatamente accessibile, e ogni domanda ha una risposta nel momento stesso in cui la si pone, come cambierà il modo in cui consideriamo la conoscenza? L'istruzione? La saggezza?
Perché curarsi che gli studenti imparino delle nozioni quando tutte le informazioni sono disponibili con un semplice clic o con un pensiero? Che importanza ha sapere perché ci sono le stagioni quando lo si può semplicemente chiedere a Siri, o quando la risposta ci viene trasmessa automaticamente da Google impiantato nel cervello?
È facile immaginare quali potrebbero essere i meravigliosi benefici di questo nuovo rapporto con la tecnologia, ma i costi sono più difficili da calcolare. Sospetto che una delle ragioni per cui la recente ricerca sugli effetti di Google sulla memoria ha generato tanta ansia è che ha tentato per la prima volta di quantificare, sia pure in modo molto limitato, alcune delle conseguenze negative, e particolarmente difficili da identificare, che la tecnologia ha sulla memoria. Mi aspetto che in futuro si facciano molti altri studi in proposito.
Il modo in cui percepiamo il mondo e agiamo sono il prodotto di come e cosa ricordiamo. Siamo tutti fatti di un insieme di abitudini plasmate dai ricordi. Se riusciamo ad avere il controllo della nostra vita, lo facciamo modificando gradualmente quelle abitudini, vale a dire i circuiti della nostra memoria. Per quanto Google, Siri e Internet siano meravigliosi, non hanno mai creato una battuta memorabile, un'invenzione, un'intuizione o un'opera d'arte. Non ancora, almeno.
La nostra capacità di trovare nel mondo aspetti umoristici, di fare collegamenti tra nozioni prima scollegate, di formulare nuove idee, di condividere una cultura comune sono tutte doti essenzialmente umane e hanno ancora bisogno di una mente umana. E anche se il magico processo alchemico che trasforma una massa di un chilo e mezzo di neuroni in una macchina capace di creatività e intuizione è qualcosa che non potremo mai capire, sappiamo che richiede materie prime con cui lavorare. Ha bisogno di ricordi. Se riduciamo la nostra capacità di ricordare - contando sulla tecnologia invece che sul nostro cervello, impegnandoci nell'apprendimento in modo superficiale, impoverendoci culturalmente - comprometteremo quel che è più importante per noi come esseri umani. Come ha detto Seneca, «Chi è dappertutto non è da nessuna parte».
Una vita piena di curiosità, di meraviglie, di (per usare ancora la parola) impegno, di rapporti autentici con il mondo - quel che tradizionalmente era considerata una bella vita - richiede una ricca attività mentale. Richiede un investimento nella memoria, la capacità di andare in profondità.
Se la nostra è sempre più una cultura del dimenticare, come sarebbe la cultura del ricordare? Beh, probabilmente leggeremmo meno estesamente, ma più in profondità. Utilizzeremmo i media in modo più attivo e meno passivo, prendendo appunti, discutendo, cercando di capire, non accettando tutto quel che ci propongono. Cercheremmo di eliminare le distrazioni, di non fare troppe cose allo stesso tempo e di trovare il modo di concentrarci di più. Forse torneremmo ad alcune delle vecchie tecniche che ci aiutavano a ricordare e che sono apparentemente obsolete, come il diario scritto alla fine di ogni giorno, o il libricino su cui appuntavamo le frasi che ci piacevano. Troveremmo qualche momento della giornata per la contemplazione e la riflessione. Quel che sto descrivendo è un cambiamento di stile di vita che dovrebbe farci preferire la profondità alla superficialità.
Socrate temeva che la scrittura avrebbe sostituito la conoscenza profonda con un artificio superficiale, ma sappiamo che si sbagliava. La scrittura ha permesso agli esseri umani di esplorare idee nuove e complesse, cosa che sarebbe stato letteralmente impossibile fare quando si dovevano tenere a mente.
Spero che le nuove tecnologie siano state altrettanto ingiustamente diffamate da chi teme che possano peggiorare le nostre capacità mentali. La nostra cultura sta attraversando un periodo di transizione tumultuoso, che potrebbe alla fine rivelarsi più significativo del passaggio dall'oralità alla scrittura. Stiamo avanzando a tentoni in un nuovo mondo ampio e oscuro muniti solo di una piccola torcia elettrica. Non sappiamo che cosa ci aspetta. Ma credo che ci siano ragioni per avere speranza.
Cos'è che mi induce a sperare? Spero che le nuove tecnologie siano usate per farci provare esperienze più profonde e per migliorare l'apprendimento. Spero che offrano soluzioni ai problemi della nostra apparentemente infinita capacità di distrarci. Spero che possano essere utilizzate per portare nelle scuole le scoperte delle scienze cognitive - come i benefici dell'apprendimento a intervalli - e che la didattica si adegui sempre più alla nostra crescente capacità di capire il funzionamento della mente. Spero che riusciremo a creare incredibili nuove forme artistiche che superino tutto quello che abbiamo fatto prima.
Un giorno, nel futuro bionico che Larry Page e Sergi Brin prefigurano, quando la nostra memoria interna ed esterna si fonderanno completamente, arriveremo a possedere una conoscenza infinita. E sembrerà fantastico. Ma la cosa più importante da ricordare è che la conoscenza infinita non coincide con la saggezza.
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